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CAPITOLO 3 - AMARO IN BOCCA

Con la nuova finestra di tempo instabile riparte il solito tran tran al Lo De Trivi, il piccolo ostello biancoazzurro in cui alloggio - simile più alle abitazioni tipiche della Groenlandia che agli edifici dei piccoli centri argentini. 


Dopo un paio di settimane si apre una finestra di un giorno, pur con cielo coperto. Il ghiaccio formatosi durante l’inverno dovrebbe essere ancora in buone condizioni, ma non c’è abbastanza tempo per abbozzare un piano concreto per la nuova via sul Fitz Roy. In Patagonia come forse in nessun altro posto al mondo, devi imparare a minimizzare la frustrazione per il poco tempo a disposizione. Questa è ormai la mia terza spedizione qui, sento di aver imparato a convivere con il rischio di tornare senza aver nemmeno potuto tentare il grande obiettivo. 


Anche in questa terza salita le carte verranno rimescolate. Out Matteo, occupato con l’Eagle team, e con lui Alessandro, che decide di scalare assieme alla fortissima moglie Claudia. Dentro Francesco Ratti. "Fra" è una guida alpina e alpinista incredibile, che ha fatto la storia sul Cervino, la sua casa, lasciando la propria traccia anche in giro per il mondo. Nel 2023 ha aperto “Wake up” sull’Aguja Guillamet, dopo un push di trentadue ore. Un vero professionista della montagna, con il corpo di una macchina.
Decidiamo di sfruttare il cielo coperto per scalare su una linea di ghiaccio. La via in questione si chiama Exocet, sull’Aguja Standhardt, un must mondiale per ogni ice-climber.


Dopo il lungo avvicinamento al Niponino, l’accampamento al cospetto del gruppo del Torre, puntiamo la sveglia alle due e qualche ora dopo siamo già all’attacco della via, che prevede di aggirare la parete est scalando il lungo canalino ghiacciato per quasi 300 m. Dopodiché, altri 250 m. di misto verso il fungo ghiacciato sommitale. 

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Cominciamo a scalare i primi tiri di corda lungo lo spigolo, avvolti da un vento gelido. Dopo una manciata di ore le nuvole sembrano diradarsi, e allora aggiriamo l’Aguja Standhardt sul versante est, restando riparati dal vento. Le condizioni della montagna, fino ad allora ideali, mutano drasticamente. Le temperature si impennano, il sole fa sciogliere la neve rimasta incrostata sopra di noi. Non siamo ancora arrivati in prossimità del canalino finale, ma le sensazioni sono piuttosto negative.


Arrivati a pochi passi dall’ultimo muro di ghiaccio ci fermiamo a pensare alla fattibilità della salita. Il canale di ghiaccio è diventato ormai una cascata d’acqua. In questo momento occorre rimanere lucidi. L’euforia per la scalata non è paragonabile però al rischio che potremmo correre avventurandoci in queste acque. ll prezzo da pagare è però troppo caro e optiamo per l’unica decisione sensata. Si scende.


Alla base della parete incontriamo un’altra cordata che aveva attaccato la via poco più di due ore prima di noi, riuscendo a completare la salita.
Alle imprecazioni per la delusione si aggiungono quelle dovute alla consapevolezza che, se fossimo partiti un paio di giri di orologio prima, le cose sarebbero andate diversamente. E io che credevo di aver accumulato già abbastanza esperienza! 

CAPITOLO 4 - CINCO GRINGOS LOCOS, TREINTA AÑOS, UNA LÍNEA

Rientriamo in ostello con la coda tra le gambe e le tasche vuote. Sul momento, il rimpianto per aver perso la prima battaglia contro il tempo era evidente. A dire la verità, solo qualche settimana dopo esser rientrato dalla spedizione, la consapevolezza di aver tentato un’altra via esteticamente clamorosa, in uno degli angoli più sfidanti del pianeta, ha preso il sopravvento.


Le tre settimane successive di pioggia costante contribuiscono a farmi mangiare le mani ancor di più. Appena mi sveglio controllo subito le previsioni, con la speranza di una finestra buona, anche di poche ore, all’orizzonte. Alcuni amici hanno scelto vie minori per tenere alta la motivazione, altri hanno optato per il rientro anticipato. Nel frattempo resto a letto una settimana per un’influenza, e la mia forma fisica ne risente. E’ il momento più complicato di quest’avventura, ma ho imparato che le cose possono evolvere, seppur in tempi non così rapidi come altrove. 


A metà febbraio il cielo torna più o meno sereno, con un vento forte che non compensa le condizioni disastrose dovute alle precipitazioni del mese precedente. Il rischio di non concludere più nulla è evidente, ma non posso precludermi le poche chances di fare un ultimo ballo su questi graniti. 
Alessandro e Francesco rientrano in Italia come da tabella. Il mio piano da metà febbraio sarebbe stato quello di cercare qualcuno con il quale scalare e nella mia testa c’erano proprio i ragazzi dell’Eagle Team. Anche questa volta è stato un evento casuale a darmi una scelta. Ironia della sorte, due ragazzi della cordata composta da Matteo Della Bordella e Dario Eynard si sono infortunati. A ventuno anni, Dario aveva già compiuto diverse salite in solitaria, tra cui la prima invernale sulla parete nord della Presolana. Ora ne ha ventitré e anche lui si è guadagnato la possibilità di condividere la corda con Matteo.


L’obiettivo è di completare una via intrapresa e quasi terminata 30 anni fa da due grandi dell’alpinismo, Maurizio Giordani e Luca Maspes. Una linea che solca centralmente il Cerro Piergiorgio, una parete liscia come una lavagna, alta quasi 1000 m. 
Avevo già messo le mani sul Piergiorgio nel 2018, assieme ad altri climber di alto livello, ma le condizioni proibitive non ci avevano permesso di progredire oltre i primissimi tiri.
Quando Teo mi propone di unirmi a loro, esito un po’, considerando l’imponenza di quella montagna, la sua parete liscia, e il rischio di rinunciare a un obiettivo più fattibile - il mio tempo in Patagonia è agli sgoccioli.


Un progetto così ambizioso richiede di agire a blocchi nelle brevi finestre, incrociare le dita e sperare di essere tanto bravi quanto fortunati. Interpreto questa chiamata di Matteo come un segno del destino. Da spettatore a protagonista, sulla mia nemesi, insieme a due campioni. Non ci penso più di tanto.

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In vista della finestra abbiamo qualche giorno per prepararci e decidere il piano d’attacco: provare ad arrivare il più in alto possibile durante il primo periodo, posizionare delle corde fisse e risalire fino a quel punto nel secondo periodo, cercando di chiudere la via.


Arriviamo alla base del Piergiorgio dopo un lungo avvicinamento di circa 10 ore, parte Matteo. Con la sua sicurezza io e Dario ci scrolliamo di dosso il timore reverenziale che questa parete incute. A me tocca il secondo tiro, forse uno dei più impegnativi nel push iniziale a causa di un tratto liscio di dieci metri senza protezioni che precede l’unico spit, rimasto lì da più di trent'anni.
Nei giorni successivi apriamo due tiri ciascuno, alternando arrampicata in libera - con difficoltà fino a circa 7a+ - e arrampicata in artificiale - che richiede grande resistenza mentale. Sul calar del sole torniamo alla base per bivaccare.


Procedendo in questo modo riusciamo a completare quattordici tiri, posizionando come da programma tutte le corde che avevamo con noi. Siamo a metà dell’opera, ma siamo costretti a rientrare a El Chalten perchè le perturbazioni sono in arrivo. In circa sette ore siamo nuovamente al Lago Eléctrico, dove ci recupera il taxi per El Chalten.


Abbiamo scelto di fare all in. Se nelle due prossime settimane non si aprirà una finestra di bel tempo, dovremo tornare sotto la bufera (o la pioggia) a recuperare il materiale e salutare da vicino il Piergiorgio. Una vera beffa. 
Anche stavolta la pazienza ci premia: abbiamo giusto gli ultimi tre giorni prima del volo di ritorno per chiudere il cerchio. Settantadue ore per completare l’avventura fondata nel 1995 da Maurizio e Luca. Dopo cinque giorni in parete, con l’attrezzatura del tempo, avevano aperto quasi 800 dei 1000 m. totali di sviluppo - ventuno tiri per l’esattezza. Il progetto è rimasto sepolto per trent’anni, forse per le difficoltà di accedervi, o per la difficoltà di poter disporre di una finestra con diversi giorni di bel tempo. O ancora, per il timore che questo scudo di roccia incute.


Maurizio, in vista della finestra in arrivo, prende un volo dall’Italia e arriva ad El Chalten. Con la sua solita gentilezza ci dà la sua benedizione. Un altro buon auspicio all’allineamento dei fattori.
Nei giorni che precedono il grande appuntamento riesco a tenermi in allenamento. Salgo tiri fino all’8b e boulder fino al 7c negli spot vicino al paese. La tensione è palpabile, tutti abbiamo delle espressioni serie stampate in volto perchè sappiamo che questa è veramente l’ultima salita prima che finisca l’estate. 
Ripassiamo un’ultima volta il piano: giorno 1, arrivo alla base; giorno 2, risalita delle dei tiri aperti e partenza sui successivi; giorno 3, chiusura della salita e cime; giorno 4, backup se siamo più lenti del previsto e discesa dalla parete; giorno 5, rientro a El Chalten.


Si parte per l’ultima volta. Mentre camminiamo, alla vista delle altre pareti ricoperte di neve ci assale un grosso dubbio sulla tenuta delle corde che abbiamo fissato, oltre che sulla scalabilità della roccia. Finalmente poco dopo il nostro arrivo il sole fa capolino, scioglie la neve e asciuga la parete. Con il binocolo vediamo che le corde sono ancora al loro posto, ci siamo! 
Nella risalita siamo più rapidi del previsto, e Dario apre un altro tiro. Sul successivo siamo però costretti a fermarci perchè il vento è davvero fort e sopra di noi si è formata una cascata d’acqua dalla neve sciolta. In compenso troviamo un terrazzino poco sotto, lì fissiamo la portaledge e ci mettiamo a riparo. Nel frattempo arriva l’aggiornamento meteo al satellitare. Pessime notizie, per il quinto giorno è previsto un vento fortissimo. Niente giorno di back up.


Decidiamo di provarci lo stesso. Nonostante il freddo micidiale infatti, il sole è rimasto e il vento sembra clemente al momento. Parte Dario che danza letteralmente sui cliff e completa il tiro che dal basso sembrava bello tosto. E’ probabilmente il punto di svolta che ci permette di progredire. Matteo infila quattro tiri in tempo zero, poi prendo io il comando delle operazioni e supero il punto più alto raggiunto da Maurizio e Luca.

A questo punto si è fatto buio, e le previsioni in peggioramento non ci lasciano libero arbitrio. Non possiamo fermarci: vetta o non si scende!
Continuo io e do tutto me stesso. Chiudo altri due tiri, con la sola forza di volontà - le energie sono finite da ore. Passo la palla a Dario, che ha il compito di finire gli ultimi tre tiri e raggiungere la cresta sommitale. Scala con grande sicurezza e arriva fino al capolinea del ventisettesimo tiro. Io e Teo lo raggiungiamo. Sono le tre di notte e non abbiamo nemmeno le forze per urlare, ma siamo in vetta al Piergiorgio! 
Lì per lì non realizziamo, scendere sarà altrettanto complicato. Ci caliamo un po’ verso un terrazzo dove sistemiamo la portaledge e possiamo sciogliere la neve per avere dell’acqua. Dopo appena tre ore di sonno veniamo svegliati dalla nevicata che sta per avvolgere tutto intorno a noi. Impacchettiamo il materiale e scendiamo di gran carriera. 


Solo alle tre del pomeriggio siamo alla base, con le facce finalmente rilassate. 
Questa volta non dobbiamo litigare per il nome della via. “Gringos locos” era il nome che avevano scelto Maurizio e Luca, ispirati dal soprannome che gli aveva attribuito il rifugista della Piedra del Fraile, ovvero “stranieri pazzi”. Una storia durata quasi trent’anni e che ora ci unisce in una bellissima via di mille metri. Il giusto finale di oltre due pazzi mesi di cronache patagoniche.

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