PATAGONIAN CHRONICLES
LE MIE SFIDE VERTICALI CONTRO IL TEMPO
by Mirco Grasso
Nel dicembre 2024, Mirco Grasso fa ritorno a El Chalten per mettere le mani sulle vie che solcano le torri più iconiche dell’alpinismo. Il suo debutto in cordata con Matteo Della Bordella si trasforma, con il passare delle settimane, in una successione di avventure e incontri, compreso quello che li porterà a chiudere un cerchio lungo quasi tre decenni, sulla ovest del Cerro Piergiorgio.
CAPITOLO 1 - LE REGOLE DEL GIOCO
È il giorno di Natale, sono le nove di sera e c’è ancora molta luce in cielo. Finalmente dopo un viaggio durato decine di ore, mi trovo di nuovo nel magico paesino di El Chalten.
In cielo non c’è una nuvola, e le catene del Fitz Roy e del Cerro Torre sono illuminate dalle ultime fiammate del cielo di mezza estate. Uno spettacolo al quale non ci si abitua mai!
Sono passati cinque anni dalla mia ultima spedizione in Patagonia. Per poter accedere alle pareti misto roccia e ghiaccio della cordigliera sono richiesti dei lunghi avvicinamenti, e un infortunio ai piedi mi aveva costretto a rivedere i piani verticali delle stagioni successive. Negli ultimi due anni il recupero è proseguito per il meglio, il resto lo ha fatto l’opera di convincimento dell’amico e fuoriclasse Alessandro Baù. Da diversi mesi progettavamo di aprire insieme ad Ale una nuova via sul Fitz Roy: un sogno tanto impossibile quanto allettante. Così, eccomi di nuovo qui.
Già, l’arrampicata su queste montagne mitiche. Un terreno di gioco diverso da quello di qualsiasi altro luogo al mondo. Lo avevo letto nei manuali di coloro che sulle Ande hanno fatto la storia, lo avevo vissuto sulla mia pelle durante le mie due esperienze precedenti. Anzitutto, è fondamentale avere sempre un piano B. Regola n.1: fisicità fa rima con flessibilità. Per provare ad ottenere qualche risultato su queste montagne è importante sapersi adattare al meteo e bilanciare i propri obiettivi in base ai giorni - a volte solamente ore - a disposizione.
Negli ultimi vent’anni, lo stile con cui si arrampica in Patagonia è cambiato drasticamente, grazie allo sviluppo del centro di El Chalten (da modesto villaggio a modesto paesino di mille abitanti) e agli strumenti, che rendono le previsioni meteo sempre più accurate. Già gli alpinisti della generazione precedente alla mia si accampavano nei pressi della parete a cui avevano deciso di puntare. Barometro alla mano, rimanevano in tenda in attesa di un cielo sereno per fare un tentativo di vetta. I margini di manovra erano ridotti.
Oggi invece, si tiene sempre sotto controllo il meteo e non appena si individua una finestra di bel tempo ogni cordata prepara il proprio piano d’attacco. Di solito l’approach anticipa l’inizio della finestra di bel tempo. Nel pomeriggio ci si accampa ai piedi della montagna che si intende scalare e, una volta conclusa la salita, si rientra in paese quando il tempo sta nuovamente peggiorando. In questo modo è possibile sfruttare ogni ora a disposizione ed essere flessibili sull’obiettivo in base alla durata del bel tempo. L’unico aspetto rimasto imprevedibile sono le condizioni della parete che si va a tentare. Al termine di qualche settimana di precipitazione, è possibile che le roccia, soprattutto quella meno esposta al sole, sia umida e ricoperta da un sottile strato di ghiaccio in alcune parti. Una brutta sorpresa che può ridurre decisamente le chance di vetta.
Un altro principio non scritto del gioco in terra argentina è la necessità di farsi trovare pronti e sempre motivati- regola n.2: l’attesa del piacere è essa stessa il piacere. Rimanere confinati ad El Chalten per intere settimane, senza poter scalare, può essere frustrante.
Per questo, occorre imparare a gestire l’attesa. La mia ricetta quotidiana per sopravvivere alla smania che mi divora da dentro consiste nel lavorare durante il mattino, una veloce sessione di boulder o in falesia nel pomeriggio, e lo scambio di aneddoti, impressioni e sogni con gli altri alpinisti che sono a caccia del bottino grosso piuttosto che alla loro prima esperienza.
Arriviamo poi all’ultimo punto, che anche nel mio caso è forse il primo per importanza - regola n.3: scegli bene con chi legarti assieme. Il team che abbiamo composto inizialmente con Matteo Della Bordella bilancia perfettamente tutti gli ingredienti necessari per sognare in grande. Teo è ormai un veterano di queste terre, grazie alle quattordici spedizioni alle spalle e alle altrettante aperture o ripetizioni. Nonostante non avessimo mai scalato assieme, con Matteo si era creata un’intesa fin da quando avevo saputo che sarebbe arrivato a El Chaltén poche settimane dopo di me. Oltre all’approccio alla parete, condividiamo uno stile di arrampicata e la mentalità che si applica per affrontare queste montagne.
Così, dopo aver trascorso le ultime giornate a sfogliare ossessivamente la guida con tutti i possibili itinerari e a riempire gli zaini di materiale e abbigliamento, ci mettiamo in cammino verso il battesimo di fuoco che attende la nostra cordata.
CAPITOLO 2 - BUONA LA PRIMA (E LA SECONDA)
La scelta ricade sulla Potter-Davis, che corre perpendicolare sulla parete est dell’Aguja Poincenot. Una bellissima via in fessura, diventata ormai una classica, nonostante sia stata aperta solo nel 2001. Dopo sei ore di cammino, raggiungiamo il Passo Superior e piantiamo le nostre tende ad un paio d’ore dalla parete. Tutto fila liscio.
L'indomani attacchiamo la via senza esitazioni: la tregua momentanea del vento ha fatto sì che il cielo si ripopolasse di nuvole, e il sole del mattino ci permette di goderci i primi movimenti come speravamo. Salire su questo granito dalla verticalità sconvolgente, legato a uno dei migliori alpinisti al mondo, è per me una doppia scuola.
Dopo aver completato i primi tiri, la via diventa più esposta sullo spigolo che guarda il Fitz Roy. Proprio in quel punto si alza da ovest un vento freddo che mi fa un po’ desistere dal proseguire, ma basta uno sguardo di Matteo per accantonare l’idea all’istante. Nonostante il gelo alle mani riusciamo comunque ad avanzare sui tiri successivi, abbastanza impegnativi, arrivando al penultimo tiro, un 7a. Un tiro tanto divertente quanto riverente: dopo esserci infilati in un passaggio strettissimo, sbuchiamo su questo doppio blocco di roccia che dobbiamo letteralmente cavalcare, data l’impossibilità di far passare entrambe le gambe. Solo qui è possibile trovare formazioni così uniche.
Giunti sulla cresta finale, a 50 metri dalla piccola piramide che ospita la vetta, le raffiche sono insostenibili. Decidiamo di anticipare le calate in doppia, comunque soddisfatti di aver messo le mani su una delle linee più iconiche del gruppo del Fitz Roy. In poche ore siamo di nuovo al quartier generale, il giorno successivo lo passiamo a riprenderci dalle fatiche del debutto in cordata.
Una volta recuperate le forze, non c’è tempo da perdere. Dopo aver assaggiato l’antipasto con la Potter-Davis, l’acquolina per consumare un pasto completo si fa sentire. Inoltre, il tempo a disposizione per scalare con Matteo sta per finire. Tra poche settimane guiderà da capocordata il nuovo progetto del CAI Eagle Team, con l’obiettivo di aprire una nuova via sul Piergiorgio assieme alle giovani aquile dell’alpinismo italiano. Per fortuna la meteo è dalla nostra: da lì a qualche giorno si sarebbe aperta un’altra finestra favorevole di un paio di giorni.
Optiamo per mantenerci a est del gruppo del Fitz Roy, auspicando di ottimizzare il tentativo a disposizione grazie a condizioni simili a quelle che avevamo trovato sulla Poincenot. Tra una sessione di boulder e l’altra spunta questa Aguja Val Biois, minuscola al cospetto del Goretta e del Fitz - la cima si trova poco oltre i 2600 m - decisamente una montagna di tutto rispetto nel contesto alpino. Teo mi propone di tentare di aprire una nuova una via che aveva immaginato sul versante est, una parete che si sviluppa per 500 m con un sistema di scaglie e fessure. Non esito a raccogliere il suo invito.
A noi si unisce Alessandro Ale Baù, il “maestro delle aperture”, e grande amico. Nel 2021, mentre eravamo in vacanza in Sardegna, abbiamo aperto insieme “A piede libero” (7c+, Punta Argennas). Inoltre, abbiamo già scalato in Yosemite, a Zion e in Dolomiti. In questo trio, un mix perfetto di visione, tecnica e talento, mi sento il più piccolo, e non solo per questioni anagrafiche.
Dato che abbiamo meno di trentasei ore a disposizione per aprire una nuova via in uno degli ambienti più estremi al mondo, con le primissime luci del giorno siamo già belli spediti ancora una volta verso Passo Superior. Questa volta non piantiamo subito le tende, ma decidiamo di sfruttare il sole di mezzogiorno per studiare dal vivo la conformazione della parete. Già dalle prime occhiate ci rendiamo conto che la via ipotizzata sembra più difficile del previsto, per la presenza di lame pericolanti nella parte superiore. Poco a sinistra, riusciamo però a individuare un altro tratto libero che segue una fessura diagonale della parete est, e poi vira leggermente a destra poco dopo metà dello sviluppo.
E’ Alessandro ad aprire le danze già il giorno stesso dell’avvicinamento. Il giorno seguente è il turno di Matteo, che completa altri tre tiri e sosta in corrispondenza dell’interruzione della fessura, in tarda mattinata. Finalmente il testimone passa nelle mie mani, a me il compito di superare il tratto di parete in cui la fessura si interrompe, e capire se è davvero percorribile.
Effettivamente, la roccia si fa via via meno ruvida, l’inclinazione aumenta e la fessura sfocia in un passaggio cieco. Una bella prova. Procedendo in artificiale, vedo sulla sinistra una spaccatura più netta, posta dieci metri più in basso, pianto l’ultimo chiodo e decido di fare un pendolo. Perdiamo un bel po’ di tempo, ma da qui si procede più spediti. Tra una manciata di ore si farà buio, e stando alle previsioni è in arrivo una bufera di neve.
Gli ultimi cinque tiri non presentano particolari difficoltà, se non quella di resistere. Di nuovo Ale guida la cordata fino a tardo pomeriggio, raggiungendo infine la spalla della torre, dove si ricongiunge la via normale. Prima parte riuscita, ora rimane la discesa! Andiamo sul sicuro visto che Teo conosce bene il canalone che separa la Val Bios e il Fitz. Alle dieci pm siamo di nuovo alla base della parete, giusto in tempo per raccogliere l’attrezzatura e cercare un riparo più sicuro per la notte fuori dal ghiacciaio. Il rientro a El Chalten è scandito dal toto nome da attribuire alla nostra nuova creazione. Finalmente conveniamo su “¿Quién sigue?”, ovvero “Avanti il prossimo”. Un invito ad esplorare quella fessura sulla destra che siamo stati costretti a scartare. Chissà che non saremo proprio noi a riprovarci in futuro…
CAPITOLO 3 - AMARO IN BOCCA
Con la nuova finestra di tempo instabile riparte il solito tran tran al Lo De Trivi, il piccolo ostello biancoazzurro in cui alloggio - simile più alle abitazioni tipiche della Groenlandia che agli edifici dei piccoli centri argentini.
Dopo un paio di settimane si apre una finestra di un giorno, pur con cielo coperto. Il ghiaccio formatosi durante l’inverno dovrebbe essere ancora in buone condizioni, ma non c’è abbastanza tempo per abbozzare un piano concreto per la nuova via sul Fitz Roy. In Patagonia come forse in nessun altro posto al mondo, devi imparare a minimizzare la frustrazione per il poco tempo a disposizione. Questa è ormai la mia terza spedizione qui, sento di aver imparato a convivere con il rischio di tornare senza aver nemmeno potuto tentare il grande obiettivo.
Anche in questa terza salita le carte verranno rimescolate. Out Matteo, occupato con l’Eagle team, e con lui Alessandro, che decide di scalare assieme alla fortissima moglie Claudia. Dentro Francesco Ratti. "Fra" è una guida alpina e alpinista incredibile, che ha fatto la storia sul Cervino, la sua casa, lasciando la propria traccia anche in giro per il mondo. Nel 2023 ha aperto “Wake up” sull’Aguja Guillamet, dopo un push di trentadue ore. Un vero professionista della montagna, con il corpo di una macchina.
Decidiamo di sfruttare il cielo coperto per scalare su una linea di ghiaccio. La via in questione si chiama Exocet, sull’Aguja Standhardt, un must mondiale per ogni ice-climber.
Dopo il lungo avvicinamento al Niponino, l’accampamento al cospetto del gruppo del Torre, puntiamo la sveglia alle due e qualche ora dopo siamo già all’attacco della via, che prevede di aggirare la parete est scalando il lungo canalino ghiacciato per quasi 300 m. Dopodiché, altri 250 m. di misto verso il fungo ghiacciato sommitale.
Cominciamo a scalare i primi tiri di corda lungo lo spigolo, avvolti da un vento gelido. Dopo una manciata di ore le nuvole sembrano diradarsi, e allora aggiriamo l’Aguja Standhardt sul versante est, restando riparati dal vento. Le condizioni della montagna, fino ad allora ideali, mutano drasticamente. Le temperature si impennano, il sole fa sciogliere la neve rimasta incrostata sopra di noi. Non siamo ancora arrivati in prossimità del canalino finale, ma le sensazioni sono piuttosto negative.
Arrivati a pochi passi dall’ultimo muro di ghiaccio ci fermiamo a pensare alla fattibilità della salita. Il canale di ghiaccio è diventato ormai una cascata d’acqua. In questo momento occorre rimanere lucidi. L’euforia per la scalata non è paragonabile però al rischio che potremmo correre avventurandoci in queste acque. ll prezzo da pagare è però troppo caro e optiamo per l’unica decisione sensata. Si scende.
Alla base della parete incontriamo un’altra cordata che aveva attaccato la via poco più di due ore prima di noi, riuscendo a completare la salita.
Alle imprecazioni per la delusione si aggiungono quelle dovute alla consapevolezza che, se fossimo partiti un paio di giri di orologio prima, le cose sarebbero andate diversamente. E io che credevo di aver accumulato già abbastanza esperienza!
CAPITOLO 4 - CINCO GRINGOS LOCOS, TREINTA AÑOS, UNA LÍNEA
Rientriamo in ostello con la coda tra le gambe e le tasche vuote. Sul momento, il rimpianto per aver perso la prima battaglia contro il tempo era evidente. A dire la verità, solo qualche settimana dopo esser rientrato dalla spedizione, la consapevolezza di aver tentato un’altra via esteticamente clamorosa, in uno degli angoli più sfidanti del pianeta, ha preso il sopravvento.
Le tre settimane successive di pioggia costante contribuiscono a farmi mangiare le mani ancor di più. Appena mi sveglio controllo subito le previsioni, con la speranza di una finestra buona, anche di poche ore, all’orizzonte. Alcuni amici hanno scelto vie minori per tenere alta la motivazione, altri hanno optato per il rientro anticipato. Nel frattempo resto a letto una settimana per un’influenza, e la mia forma fisica ne risente. E’ il momento più complicato di quest’avventura, ma ho imparato che le cose possono evolvere, seppur in tempi non così rapidi come altrove.
A metà febbraio il cielo torna più o meno sereno, con un vento forte che non compensa le condizioni disastrose dovute alle precipitazioni del mese precedente. Il rischio di non concludere più nulla è evidente, ma non posso precludermi le poche chances di fare un ultimo ballo su questi graniti.
Alessandro e Francesco rientrano in Italia come da tabella. Il mio piano da metà febbraio sarebbe stato quello di cercare qualcuno con il quale scalare e nella mia testa c’erano proprio i ragazzi dell’Eagle Team. Anche questa volta è stato un evento casuale a darmi una scelta. Ironia della sorte, due ragazzi della cordata composta da Matteo Della Bordella e Dario Eynard si sono infortunati. A ventuno anni, Dario aveva già compiuto diverse salite in solitaria, tra cui la prima invernale sulla parete nord della Presolana. Ora ne ha ventitré e anche lui si è guadagnato la possibilità di condividere la corda con Matteo.
L’obiettivo è di completare una via intrapresa e quasi terminata 30 anni fa da due grandi dell’alpinismo, Maurizio Giordani e Luca Maspes. Una linea che solca centralmente il Cerro Piergiorgio, una parete liscia come una lavagna, alta quasi 1000 m.
Avevo già messo le mani sul Piergiorgio nel 2018, assieme ad altri climber di alto livello, ma le condizioni proibitive non ci avevano permesso di progredire oltre i primissimi tiri.
Quando Teo mi propone di unirmi a loro, esito un po’, considerando l’imponenza di quella montagna, la sua parete liscia, e il rischio di rinunciare a un obiettivo più fattibile - il mio tempo in Patagonia è agli sgoccioli.
Un progetto così ambizioso richiede di agire a blocchi nelle brevi finestre, incrociare le dita e sperare di essere tanto bravi quanto fortunati. Interpreto questa chiamata di Matteo come un segno del destino. Da spettatore a protagonista, sulla mia nemesi, insieme a due campioni. Non ci penso più di tanto.
In vista della finestra abbiamo qualche giorno per prepararci e decidere il piano d’attacco: provare ad arrivare il più in alto possibile durante il primo periodo, posizionare delle corde fisse e risalire fino a quel punto nel secondo periodo, cercando di chiudere la via.
Arriviamo alla base del Piergiorgio dopo un lungo avvicinamento di circa 10 ore, parte Matteo. Con la sua sicurezza io e Dario ci scrolliamo di dosso il timore reverenziale che questa parete incute. A me tocca il secondo tiro, forse uno dei più impegnativi nel push iniziale a causa di un tratto liscio di dieci metri senza protezioni che precede l’unico spit, rimasto lì da più di trent'anni.
Nei giorni successivi apriamo due tiri ciascuno, alternando arrampicata in libera - con difficoltà fino a circa 7a+ - e arrampicata in artificiale - che richiede grande resistenza mentale. Sul calar del sole torniamo alla base per bivaccare.
Procedendo in questo modo riusciamo a completare quattordici tiri, posizionando come da programma tutte le corde che avevamo con noi. Siamo a metà dell’opera, ma siamo costretti a rientrare a El Chalten perchè le perturbazioni sono in arrivo. In circa sette ore siamo nuovamente al Lago Eléctrico, dove ci recupera il taxi per El Chalten.
Abbiamo scelto di fare all in. Se nelle due prossime settimane non si aprirà una finestra di bel tempo, dovremo tornare sotto la bufera (o la pioggia) a recuperare il materiale e salutare da vicino il Piergiorgio. Una vera beffa.
Anche stavolta la pazienza ci premia: abbiamo giusto gli ultimi tre giorni prima del volo di ritorno per chiudere il cerchio. Settantadue ore per completare l’avventura fondata nel 1995 da Maurizio e Luca. Dopo cinque giorni in parete, con l’attrezzatura del tempo, avevano aperto quasi 800 dei 1000 m. totali di sviluppo - ventuno tiri per l’esattezza. Il progetto è rimasto sepolto per trent’anni, forse per le difficoltà di accedervi, o per la difficoltà di poter disporre di una finestra con diversi giorni di bel tempo. O ancora, per il timore che questo scudo di roccia incute.
Maurizio, in vista della finestra in arrivo, prende un volo dall’Italia e arriva ad El Chalten. Con la sua solita gentilezza ci dà la sua benedizione. Un altro buon auspicio all’allineamento dei fattori.
Nei giorni che precedono il grande appuntamento riesco a tenermi in allenamento. Salgo tiri fino all’8b e boulder fino al 7c negli spot vicino al paese. La tensione è palpabile, tutti abbiamo delle espressioni serie stampate in volto perchè sappiamo che questa è veramente l’ultima salita prima che finisca l’estate.
Ripassiamo un’ultima volta il piano: giorno 1, arrivo alla base; giorno 2, risalita delle dei tiri aperti e partenza sui successivi; giorno 3, chiusura della salita e cime; giorno 4, backup se siamo più lenti del previsto e discesa dalla parete; giorno 5, rientro a El Chalten.
Si parte per l’ultima volta. Mentre camminiamo, alla vista delle altre pareti ricoperte di neve ci assale un grosso dubbio sulla tenuta delle corde che abbiamo fissato, oltre che sulla scalabilità della roccia. Finalmente poco dopo il nostro arrivo il sole fa capolino, scioglie la neve e asciuga la parete. Con il binocolo vediamo che le corde sono ancora al loro posto, ci siamo!
Nella risalita siamo più rapidi del previsto, e Dario apre un altro tiro. Sul successivo siamo però costretti a fermarci perchè il vento è davvero fort e sopra di noi si è formata una cascata d’acqua dalla neve sciolta. In compenso troviamo un terrazzino poco sotto, lì fissiamo la portaledge e ci mettiamo a riparo. Nel frattempo arriva l’aggiornamento meteo al satellitare. Pessime notizie, per il quinto giorno è previsto un vento fortissimo. Niente giorno di back up.
Decidiamo di provarci lo stesso. Nonostante il freddo micidiale infatti, il sole è rimasto e il vento sembra clemente al momento. Parte Dario che danza letteralmente sui cliff e completa il tiro che dal basso sembrava bello tosto. E’ probabilmente il punto di svolta che ci permette di progredire. Matteo infila quattro tiri in tempo zero, poi prendo io il comando delle operazioni e supero il punto più alto raggiunto da Maurizio e Luca.
A questo punto si è fatto buio, e le previsioni in peggioramento non ci lasciano libero arbitrio. Non possiamo fermarci: vetta o non si scende!
Continuo io e do tutto me stesso. Chiudo altri due tiri, con la sola forza di volontà - le energie sono finite da ore. Passo la palla a Dario, che ha il compito di finire gli ultimi tre tiri e raggiungere la cresta sommitale. Scala con grande sicurezza e arriva fino al capolinea del ventisettesimo tiro. Io e Teo lo raggiungiamo. Sono le tre di notte e non abbiamo nemmeno le forze per urlare, ma siamo in vetta al Piergiorgio!
Lì per lì non realizziamo, scendere sarà altrettanto complicato. Ci caliamo un po’ verso un terrazzo dove sistemiamo la portaledge e possiamo sciogliere la neve per avere dell’acqua. Dopo appena tre ore di sonno veniamo svegliati dalla nevicata che sta per avvolgere tutto intorno a noi. Impacchettiamo il materiale e scendiamo di gran carriera.
Solo alle tre del pomeriggio siamo alla base, con le facce finalmente rilassate.
Questa volta non dobbiamo litigare per il nome della via. “Gringos locos” era il nome che avevano scelto Maurizio e Luca, ispirati dal soprannome che gli aveva attribuito il rifugista della Piedra del Fraile, ovvero “stranieri pazzi”. Una storia durata quasi trent’anni e che ora ci unisce in una bellissima via di mille metri. Il giusto finale di oltre due pazzi mesi di cronache patagoniche.